Una cesta d'uova e una chleba - Gruppo Alpini Roncegno

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Una cesta d'uova e una chleba

La 1a G.M.



UNA CESTA D'UOVA E UNA CHLEBA
(TESTIMONIANZA-RIEPILOGO)

di Vitaliano Modena



Il paese dove eravamo ospitati, verso i confini con la Polonia, dove s'allunga la catena dei Sudeti, era abitato in parte da tedeschi e in parte da boemi. Ci assegnarono inizialmente una casetta i cui proprietari erano tedeschi e ci trovammo a superare grandi difficoltà; per frequentare la scuola, ad esempio, distante un paio d'ore di cammino, che diventavano ancor più pesanti con la pioggia, il freddo e la neve, e dove trovavamo dei compagni che si divertivano a tormentarci. Ma l'aspetto peggiore consisteva nella mancanza di cibo: ci eravamo ridotti a mangiare trifoglio cotto. Andavamo a rubare foglie di barbabietola e patate, strisciando carponi tra le file, sempre con il timore di essere scoperti, ma senza scrupoli, perché anche il prete ci diceva: "Se non rubate, morirete di fame". Mio fratello camminava per una giornata e oltrepassava la selva per raggiungere le campagne ricavate in una radura e le abitazioni circostanti in cerca di qualche chilo di patate e si sentiva parolacce, si prendeva qualche calcio nel sedere. Anche la mamma veniva derisa quando andava a chiedere qualcosa alle vicine. Un giorno, tornato da scuola, vidi lo zio, invalido, sdraiato su una panca con un'espressione avvilita, mio fratello che si lamentava per la fame, la mamma che piangeva perché non sapeva cosa mettere in tavola. Uscii allora di casa e mi recai presso una famiglia di boemi che conoscevo: la padrona, vedova di guerra, era una brava persona. Lì erano tutti indaffarati a battere il frumento. Due cavalli, girando su una piattaforma, azionavano una trebbiatrice. Mi offersi di fare qualcosa e la padrona mi affidò la guida dei cavalli. Intanto che giravo, vedevo le galline che salivano su un mucchio di paglia. Quando fu l'ora della sosta per la merenda, tutti entrarono in casa, e anch'io vi fui invitato, ma rifiutai dicendo che non avevo fame (figuriamoci!). Così rimasi fuori, solo. Mi arrampicai allora sulla paglia, misi in una cesta le uova che vi avevo trovato e corsi a casa a portarle alla mamma. Ritornai subito alla fattoria, e feci ancora in tempo a mangiare qualcosa. Il lavoro riprese e durò fino a notte. Ritornai a casa portando con me una chleba, presa di nascosto anch'essa. La mamma pianse, forse più per l'ansia e la preoccupazione derivata dall' incerta provenienza di quegli alimenti che per la gioia di aver risolto il problema del momento. Il giorno seguente mi ripresentai in quella casa con una certa apprensione, ma tutto andò bene: mi accolsero con cordialità. Lavorai ancora con i cavalli tutto il pomeriggio e trovai il tempo di parlare alla signora delle nostre difficoltà. Ricevetti un sacchetto di patate. Che festa! Mi disse che non poteva darmi più di tanto perché anche a loro venivano requisiti i prodotti e dovevano fare i conti con il raziona mento. Venni poi a sapere che per i bisogni della famiglia erano costretti a nascondere le patate in campagna, dentro buche ricoperte di paglia e terra. Ci trasferirono, l'ultimo anno, in un' altra casetta. La padrona boema aveva un figlio combattente volontario con la forza militare cecoslovacca in Italia. Anche per questo ci voleva un gran bene. Proprio in quel periodo ci raggiunse papà che, militarizzato sulle  Dolomiti, poteva godere di una lunga convalescenza, che allora chiamavano superbitrio. Tutti i giorni noi ragazzi andavamo con lui di là dalla selva, in quella gran radura, seminata a frumento. Tornavamo con sacchi di spighe che la mamma provvedeva a macinare poco per volta. Allora finì la fame. Quando rimpatriammo, lasciammo alla padrona di casa una notevole scorta di legna.



Boemia. Famiglia di Guglielmo Bernardi.




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25/02/2023
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